A VOLTE
you wait for a ring of light
in the cold December sky
you wait
for a voice to give sound
of words and cries
to the mouth stiffened by pain
you wait
to find yourself
at the next corner of life
illuminated by flickering stars
A VOLTE
you wait for a ring of light
in the cold December sky
you wait
for a voice to give sound
of words and cries
to the mouth stiffened by pain
you wait
to find yourself
at the next corner of life
illuminated by flickering stars
Jeanine aprì gli occhi e si guardò intorno, con fatica perché il minimo gesto le causava dolori insopportabili come le sue ossa fossero frantumate. Un odore acre le pungeva le narici facendola lacrimare.
Doveva muoversi, uscire da quella stanza cupa, con una sola finestra; il gocciolare lento ma insistente lungo le pareti scrostate la fece rabbrividire. Le vesti umide le riempirono le narici di un odore che conosceva, il profumo di aghi di pino, ma lei non era in un bosco, era in una stanza tappezzata di dipinti.
Poi un ricordo s’insinuò tra le fitte di dolore. Si era rivolta all’amico Jakub; aveva bisogno di denaro per scappare lontano dal marito che, giorno dopo giorno, la puniva con pugni e calci. Non poteva più restare, l’intensificarsi della violenza era presagio di morte.
Jakub era disposto ad aiutarla; le avrebbe dato i soldi per fuggire, doveva solo posare per un quadro.
Dove sei amico mio? Perché mi hai lasciata sola? Cercò di alzarsi. Con movimenti cauti e stringendo denti e volontà, si mise in ginocchio e lentamente in piedi. Cercò le scarpe, ma non riuscì a vederle in alcun angolo. Il cuore pulsava in gola; doveva uscire prima che il terrore la paralizzasse. Non aveva niente per coprirsi, ma l’urgenza era fuggire. Un rumore di tuono la fermò come accadeva con i boati del marito infuriato. Doveva andarsene, subito.
Spalancò la porta e, tenendosi al corrimano, scese le scale trattenendo i gemiti di dolore che ogni passo le causava.
Riconobbe la viuzza dove c’era lo studio di Jakub, un vicolo stretto e deserto con pietre sconnesse e pozze d’acqua. Sentì una forte spinta alla schiena, inciampò e cadde sbattendo la testa con violenza. Invocò Jakub. Sentì il sangue scorrerle lungo viso e gocciolare sul selciato, poi il nulla.
Jakub si svegliò di soprassalto. Per qualche secondo non riconobbe il posto e il momento, poi gli tornarono alla mente le immagini di Jeanine, morta, nel vicolo. Con lentezza volse lo sguardo verso il cavalletto dove aveva lasciato la tela quasi completata. Dapprima, con orrore, vide solo una tela bianca; quando i battiti del cuore rallentarono e gli occhi si liberarono dalle visioni dell’incubo, la vide, la sua modella, mancavano pochi dettagli e il lavoro sarebbe stato perfetto. Lo avrebbe chiamato –Fuga dal Futuro –
Un lieve bussare gli causò un sussulto. Sulla soglia c’era Jeanine in cappotto, cappello e borsa.
“Sono pronta. Un’amica mi porterà in un posto sicuro. Il quadro è così realistico che m’incute terrore, perché è così che finirei senza il tuo aiuto, Jakub.”
1925 Genova
Ottobre, un vento gelido che strappa le ultime
foglie dagli alberi e alza il mare in onde che s’infrangono conto l’imponente
mole della nave nel porto di Genova; ci porterà in Argentina, a Buenos Aires, dove
mio fratello Toni vive con la famiglia ed è diventato imprenditore edile. Mio
marito Ernesto lavorerà con lui, io continuerò il mio lavoro di sarta e
ricamatrice. Tempi duri in Italia, tanta disoccupazione e nessun futuro per
noi. Mio fratello Toni ci ha convinti. Ci sono centinaia di persone come noi,
con una valigia di cartone, la disperazione in tasca e la speranza legata a un
filo. Vengono da tutte le parti del paese, tanti veneti come Ernesto e me,
facilmente riconoscibili dal dialetto e le mani indurite dai calli.
Partire è come staccare un pezzo di cuore e i sorrisi forzati mal riescono a
mascherare il dolore del distacco.
1985 Buenos Aires
Mi guardo intorno. Guardare è un eufemismo considerato
che sono quasi completamente cieca; vedo sagome e colori sbiaditi, il che mi ha
permesso di muovermi per la casa senza rischiare cadute e altri problemi. Ho
dovuto decidere di lasciare questa terra che amo perché a ottantaquattro anni e
questa infermità devo contare sugli altri. Sono tutti così premurosi: mi fanno
la spesa, mi accompagnano quando devo andare in qualche ufficio per fare tutte
le pratiche di espatrio e il trasferimento della pensione. Tornerò in Italia
dopo sessant’anni, come emigrare ancora una volta, vivrò nel mio paese che ora
è una cittadina prospera vicina a Treviso, con mia sorella Alba della quale ho
un vago ricordo. Mio fratello Nani è arrivato due settimane fa e adesso è tutto
pronto per la nostra partenza. Ho poco bagaglio e un grosso album di
fotografie. La comunità italiana qui ha accolto mio fratello come un membro
della grande famiglia, per questo sento un nodo in gola, sto per lasciare
persone che mi hanno accolta quale zia, amica, sorella Mi mancheranno tutti.
Viaggeremo in aereo, è la prima volta per me.
Ho tutto il tempo per pensare a come e perché sono arrivata qua, nella mia
seconda patria.
Toni aveva organizzato tutto, lavoro e casa.
Avremmo abitato in un mini appartamento adiacente al suo in una dei tanti rioni
italiani. Era vicino alla La Boca. Che meraviglia vedere quel quartiere con le
case colorate fatte di latta e di legno. C’erano tanti genovesi là; ho imparato
presto che non era importante da quale regione provenissimo, eravamo tutti
italiani. Era come sbarcare in un’Italia in miniatura. Con il passare degli
anni ho scoperto quanto siamo amati e rispettati. L'Argentina aveva bisogno di
noi, di mano d’opera e cervelli.
Così, giungere in una terra lontana, senza gli affetti è stato meno traumatico
di quel che temevo grazie ai miei compatrioti.
Nani è di ritorno, dice che è tutto pronto. Voleva
chiamare un taxi, ma i miei nipoti, figli di mio fratello Toni, vogliono
accompagnarci con la loro auto.
̶ Maria, hai preso tutte le tue cose?
Vuoi che ti aiuti a controllare l’elenco di ciò che vuoi portare con te?
̶ Sessant’anni di vita in due valigie,
Nani, e un bagaglio di ricordi molto più cospicuo.
̶ Porto giù le valigie. Aspetto i nostri
nipoti e poi risalgo a prenderti.
La mia mente rincorre i ricordi, come a voler capire la circolarità della mia
vita. I primi anni furono faticosi e intensi. Ernesto cominciò subito a
lavorare; io cucivo e ricamavo per le famiglie nei dintorni. Volevo imparare lo
spagnolo e così m’iscrissi a un corso serale. Parlare non era difficile, tante
parole sono simili al nostro dialetto, ma la grammatica è difficile ed io avevo
frequentato solo le elementari.
Il dolore del distacco era sempre presente. Avevo lasciato i miei genitori, tre
fratelli e tre sorelle, con poca speranza di rivederli. Mi mancavano tutti, ricordavo
con nostalgia struggente le cene frugali ma sempre gioiose. Per fortuna a
Buenos Aires c’era mio fratello Toni e, con il passare dei mesi e degli anni,
si formò una grande famiglia. La domenica ci si trovava in tanti in chiesa e si
creavano nuove amicizie e collaborazioni.
Io smisi di andare in chiesa negli anni quaranta. Non ci credevo più alla
preghiera e alla speranza. Dopo otto anni dal mio arrivo e una vita quasi
felice, Toni cadde da un’impalcatura e mori. L’impresa dovette chiudere; mio marito
Ernesto cominciò a bere, diventò la sua occupazione principale finché fu
trovato morto per la strada. Ero sola e senza un lavoro fissa. Con i pochi
soldi che avevo messo da parte e l’aiuto di Mimina, la vedova di Toni, m’iscrissi
a una scuola per infermiere e fu una sfida perché prima dovetti conseguire il
diploma delle medie. Ci riuscii. Assistevo i malati, mi chiamavano anche
dall’ospedale e il lavoro mi piaceva, potevo aiutare gli altri e vivere con
quello che guadagnavo.
Nani è qui. Tempo di staccarsi da tutto e tutti. In auto non riesco a parlare,
il nodo in gola non me lo permette e non voglio piangere. Mi trovo dentro
l’aereo che a me sembra un’astronave. Nani mi parla dell’Italia, di come si
viva bene adesso; mi descrive la sua famiglia: cinque figli non sono pochi ma
tutti sistemati.
Ascolto e poi mi assopisco. Quando mi sveglio, tengo gli occhi chiusi. Nani sta
guardando il film che proiettano. Io sento la necessità ripercorrere il film
della mia vita.
Ci sono stati tempi difficili in Argentina: colpi di stato, dittature e i
desaparecidos.
Non ricordo quanti governi si sono susseguiti con disastrose conseguenze sociali
ed economiche; per questo ringrazierò sempre Peron e la grande Evita. Le
riforme sociali che hanno introdotto, quello che hanno fatto per i lavoratori è
stato grande. Grazie a loro milioni di lavoratori, io compresa, hanno avuto la
pensione. I desaparecidos. Che tragedia
e orrore! Se ne palava in segreto, con tanta paura. Poi un giorno anche il
figlio della mia vicina Anna sparì. La polizia segreta indagava, interrogava
tutti nel nostro quartiere alla caccia di altri dissidenti. Manuele, studente
di legge, partecipava a tutte le dimostrazioni e un giorno sparì nel nulla con
tanti altri giovani. Alla paura seguì la reazione. Le Madri di Plaza de Mayo,
con un coraggio incredibile, iniziarono a protestare, a chiedere spiegazioni e,
soprattutto, a reclamare il ritorno dei loro figli. Anna era una delle madri
con il fazzoletto bianco in testa, voleva il suo Manuele. Non so quanti
dissidenti siano spariti, dicono decine di migliaia, tra questi anche Manuele,
sparito per sempre.
A volte penso che la paura e l’incertezza siano state la colonna sonora in vari
periodi della mia vita. Ricordo quando appresi che l’Italia era entrata in
guerra e che i miei fratelli Nani e Ice erano partiti. In quel periodo le
lettere arrivavano a intervalli di mesi. Nani scriveva quando poteva e l’attesa
di notizie mi logorava. La mia famiglia si stava sgretolando, avevo perso il
papà, una sorella e un fratello e loro due erano in mezzo a una guerra
sanguinosa. Ero felice che l’Argentina fosse neutrale e angosciata per l’Italia
e l’Europa. Che periodo di atrocità e distruzione!
E nel dopoguerra: tutto da ricominciare, ricostruire. L’unica cosa positiva fu
che i miei due fratelli tornarono a casa, anche se Ice fu prigioniero degli
inglesi, in India, per due anni.
L’hostess si avvicina e chiede se desidero una
bevanda. Non voglio nulla. Preferisco continuare il mio viaggio mentale. Nani
mi guarda con affetto, mi chiede se sono contenta di questo ritorno, se avessi
mai considerato questa possibilità prima.
Spiego che quando compii sessant’anni e ottenni la mia pensione, ci pensai
seriamente. Se tornavo, volevo essere autosufficiente. Poi è successo qualcosa d’incredibile:
mi sono risposata.
̶ De Avellino è il tuo secondo cognome.
Nelle tue lettere non hai mai spiegato cosa e com’è avvenuto.
̶ Beh, anche se ero in pensione, continuavo
la mia professione d’infermiera con i privati. E fu così che cominciai ad
assistere la moglie del Capitano dell’Esercito José De Avellino. Per due anni
mi recai da loro ogni giorno e qualche volta, se necessario, passavo la notte
al capezzale della signora. Il capitano ed io parlavamo molto; lui mi era grato
per ciò che facevo. Dopo la morte della signora, non vidi il capitano per
parecchi mesi. Un giorno venne a trovarmi e m’invitò a cena. Fu l’inizio di una
relazione tranquilla. No, non era amore ma rispetto e affezione. Lui aveva sessantasette
anni, in pensione, io sessantadue. Ci siamo sposati civilmente e abbiamo
vissuto dieci mesi un’esistenza serena e affettuosa. Solo dieci mesi e poi un
infarto me lo portò via.
̶ Questo lo ricordo. Non si può dire che
tu abbia avuto una vita facile, ma hai sempre reagito con una forza d’animo
incredibile, Maria.
Sorrido e ripenso alla mia vita come un susseguirsi
di cadute e il risollevarsi sempre più arduo.
Mi trasferii in un mini appartamento vicino a mia cognata. Per le pratiche di
successione, un avvocato italiano mi aiutò, ma la scoperta spiacevole fu che,
secondo la legge argentina, avevi diritto alla pensione del marito solo dopo un
anno dal matrimonio.
Far parte della comunità italiana mi ha aiutata moltissimo, non solo per le pratiche
burocratiche ma per l’affetto e la vicinanza dimostratemi in tutti questi
lunghi anni. Da sola non sarei riuscita a superare l’angoscia per il futuro. Ho
un forte legame con mia cognata, e con i suoi figli che ora sono cadetti e,
intorno a loro, tante persone, una grande famiglia.
Certo ancora accarezzavo l’idea di tornare in Italia, il desiderio
di rivedere i miei fratelli e sorelle. Rimase un desiderio fino alla caduta
dalla scala, appendendo le tende. Ho continuamente bisogno di aiuto e l’ho
avuto, ma non è giusto; sono vecchia e malandata e mi detesto quando devo
chiedere senza poter dare nulla in cambio.
In Italia vivrò con mia sorella, avrò intorno i miei due fratelli e tanti
nipoti; la mia pensione sarà sufficiente per le poche necessità che ho. È la
scelta giusta, ma il mio cuore è spaccato dalla nostalgia.
Nani mi ha chiesto se mi sento più italiana o argentina.
Sono italoargentina. Amo questi due paesi. A Buenos Aires ho trovato la mia piccola
Italia e gli italiani là sono più apprezzati che in patria. Se è giunta la mia
ora, tuttavia, voglio giacere accanto ai miei genitori; sento le lacrime scorrermi
lungo le guance.
̶ Stai Bene, Maria? – chiede Nani,
preoccupato.
̶ Bien mas o meno, ̶ rispondo.
Ci scambiamo un sorriso
Insonnia
Il tempo danza minuetti
in un cielo graffiato da stelle
dove avvengono incontri
tra ombre insonni che vedono ore
appese a cambi di luce
mentre occhi spalancati legano
il silenzio blu al davanzale.
Chi dorme non sa di questi fruscii
dei passi ovattati tra lembi di cielo e nuvole
delle ferite riaperte dal fragore del giorno.
Insomnia
Time dances minuets
on a sky scratched by stars
where sleepless shadows meet
and watch hours hanging on light changes
while open wide eyes tie
blue silence to the windowsill.
Those who sleep can’t hear the rustle
of muffled footsteps along flaps
of sky and clouds -
they can’t know of the wounds
the day’s roar will open again.
Il Rifugio
Era stata un'ottima idea. Ricordando la casa semidiroccata, dispersa in un angolo di campagna, le si era presentata la soluzione. Era stato facile affittarla e poco costoso sistemare una stanza che le serviva da cucina e camera, oltre ad un piccolo bagno.
Era già passato un mese; lo sapeva con precisione; cancellava i giorni dal calendario per capire durata dell’attesa.
Le giornate trascorrevano lente, uguali. Al mattino, guardandosi allo specchio, vedeva un'immagine estranea: i capelli scoloriti, gli occhiali dalla montatura pesante la facevano apparire più vecchia.
Il viso portava gli inequivocabili segni del tumulto interiore: lunghi, profondi solchi sulla fronte, occhiaie scure, pelle arsa.
Distesa sul letto, girò lo sguardo intorno; percorse le pareti intonacate, assalite da minuscoli insetti che, inesorabili, si insinuavano dalle finestre, dalle fessure della porta. Era solita seguire i loro movimenti; si chiedeva a quale scopo o meta tendessero; poteva trascorrere ore osservandoli: un modo per liberare la mente dai detriti della paura. Il dibattersi di quelle macchioline nere costituiva la sua principale attività: rimozione dei ricordi.
Sparire nel nulla significava provocare sofferenza; eppure, fosse rimasta, ci sarebbe stato più dolore non solo per lei, ma per tutti i suoi cari.
"Bella mossa", pensò rassegnata. Un ragno aveva catturato due mosche; il loro dibattersi cessò presto: crudele; la legge della natura.
Si alzò con cautela; aprendo la porta, fu accolta dal tepore dei raggi autunnali. La sedia a dondolo era là, pronta, all'ombra di un unico arbusto sopravvissuto alla desolazione del luogo. Il dondolio la fece cadere nel torpore poi, subdola come sempre, la sentì arrivare: quella contrazione muscolare che partiva dal petto e, in pochi secondi, sferrava attacchi a tutto il corpo. Si irrigidì per non gridare; doveva svuotare la mente, ignorare quei compressori che la stritolavano.
Si concentrò sui fili d'erba calpestati e secchi, sugli operai a poche centinaia di metri intenti a costruire una nuova torre al progresso. Quegli uomini si erano incuriositi per la sua presenza.
Molti giorni prima, due di loro si erano avvicinati con una scusa; la vista di una "matura" malandata aveva demolito il loro interesse. Ora nessuno veniva a disturbarla.
Era passato! Il sangue ricominciò a circolare, la nebbia si diradò. Prese il diario e lo aprì alla stessa pagina, sempre quella con una data e le sue parole –Se te ne vai, ti cercherò e ti troverò. Non puoi sfuggirmi.-
C'era una domanda che le bombardava il cervello - "Riuscirà a trovarmi?"
Quell'isolamento le era stato suggerito, quasi imposto, dai 2 detective; era l’unico modo per poter arrestare l’uomo con il quale aveva convissuto e che lei conosceva con un nome diverso, aspetto alterato dalla barba e baffi, l’uomo che da tre anni la Polizia stava cercando per truffa aggravata e tentato omicidio della moglie.
" Sarà sorvegliata da lontano, Saremo con lei se lui si presenta e si presenterà perché lei è una testimone essenziale. Un mese o due. Lui ha i mezzi e la necessità di trovarla.”
Sembrava non ci fosse scelta e lei si era ricordata di quell’angolo sperduto.
Se non si può scegliere come vivere, si può scegliere di restare vivi.
Cominciarono le piogge. Le mancavano i suoi pomeriggi all'aperto. La stanza si fece angusta; gli insetti minacciosi e repellenti. La compressione fisica stava minando la sua resistenza. Era là da più di un mese.
In una tiepida mattina di novembre, raggiunse il suo pezzetto di verde, la sedia umida e scrostata.
Sentì il rombo di un veicolo avvicinarsi, dirigersi verso di lei. Con il cuore in tumulto estrasse la ricetrasmittente che i due “operai” le avevano dato e il piccolo revolver.
Con il dito appoggiato sul pulsante rosso, chiuse gli occhi.
Aspettò.
Acqua e sale hanno divorato tutto – la finestra
dove lei soleva attendere, il tetto, le pareti.
Rimangono pietre ammucchiate e una porta di quercia.
A volte la porta galleggia con lei verso il mare
con un carico di tramonto che decanta attraverso il cuore.
Pesci scivolano dentro e fuori le crepe
del suo corpo legnoso,
si sente un vago bussare
e dita d’acqua intrecciano conchiglie
sui cardini, sulla maniglia.
Lei non naviga mai lontano, non si apre mai,
aspetta che il gocciolante tramonto si asciughi
e si mescoli alla sua oscurità.
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Water and salt have devoured everything – windows,
where she used to wait, roof, walls.
Heaps of stones and an oak door – what is left.
At times the door floats with her to the sea
with its load of sunset decanting through her heart.
Fish swim in and out the cracks – a light knocking
is heard while watery fingers weave shells
around hinges, on the handle.
It never sails far, never opens,
just waits for the dripping sunset
to dry up and melt into darkness.-
Chess game with Clare -- Partita a Scacchi con Clare
For My Sister
Mosquitos settle on my eyebrows;
I brush them away. Your violet glance
entangles my thoughts; I mutter
how to move knights.
The wind lashes tall grass,
carries the tinkling of silver bells.
Your eyes lower to the board and calculate, —
pale fingers tap at the wooden queen
– Dead!- You whisper-
– I’ll be dead before I can listen to last
cicadas as they sing their tymbal tunes –
Your dilated pupils choke violet.
Darkness grows and hides my shivers.
– Lancers are useless, no chance for pawns
No chance for me –
Your nails tap on wood.
– Good move! The queen is done.
No more games to play-
Aged stars fall into the pond;
pain sneaks through my chest and bites,
bites, bites.
---
Partita a Scacchi con Clare
Zanzare si posano sulle mie sopracciglia,
le allontano. Il tuo sguardo viola
intrappola i miei pensieri; mormoro
come o se muovere il cavallo.
Il vento sferza l'erba alta,
porta un tintinnio di campane d'argento.
I tuoi occhi si abbassano sulla scacchiera,
le dita pallide toccano la regina
- Morta!- sussurri,
sarò morta prima d’ ascoltare le ultime
cicale e le loro martellanti melodie -
Le tue pupille dilatate soffocano il viola.
L'oscurità cresce e nasconde il mio tremito.
- Gli alfieri sono inutili, nessuna mossa coi pedoni.
Nessuna possibilità per me -
Le tue unghie tamburellano sul legno.
- Buona mossa! La regina è persa.
Niente più giochi -
Stelle opache cadono nello stagno;
il dolore si insinua, attraversa il petto
e morde, morde, morde.