Wednesday, November 30, 2022


 Sono Italoargentina

1925 Genova

Ottobre, un vento gelido che strappa le ultime foglie dagli alberi e alza il mare in onde che s’infrangono conto l’imponente mole della nave nel porto di Genova; ci porterà in Argentina, a Buenos Aires, dove mio fratello Toni vive con la famiglia ed è diventato imprenditore edile. Mio marito Ernesto lavorerà con lui, io continuerò il mio lavoro di sarta e ricamatrice. Tempi duri in Italia, tanta disoccupazione e nessun futuro per noi. Mio fratello Toni ci ha convinti. Ci sono centinaia di persone come noi, con una valigia di cartone, la disperazione in tasca e la speranza legata a un filo. Vengono da tutte le parti del paese, tanti veneti come Ernesto e me, facilmente riconoscibili dal dialetto e le mani indurite dai calli.
Partire è come staccare un pezzo di cuore e i sorrisi forzati mal riescono a mascherare il dolore del distacco.

1985 Buenos Aires

Mi guardo intorno. Guardare è un eufemismo considerato che sono quasi completamente cieca; vedo sagome e colori sbiaditi, il che mi ha permesso di muovermi per la casa senza rischiare cadute e altri problemi. Ho dovuto decidere di lasciare questa terra che amo perché a ottantaquattro anni e questa infermità devo contare sugli altri. Sono tutti così premurosi: mi fanno la spesa, mi accompagnano quando devo andare in qualche ufficio per fare tutte le pratiche di espatrio e il trasferimento della pensione. Tornerò in Italia dopo sessant’anni, come emigrare ancora una volta, vivrò nel mio paese che ora è una cittadina prospera vicina a Treviso, con mia sorella Alba della quale ho un vago ricordo. Mio fratello Nani è arrivato due settimane fa e adesso è tutto pronto per la nostra partenza. Ho poco bagaglio e un grosso album di fotografie. La comunità italiana qui ha accolto mio fratello come un membro della grande famiglia, per questo sento un nodo in gola, sto per lasciare persone che mi hanno accolta quale zia, amica, sorella Mi mancheranno tutti. Viaggeremo in aereo, è la prima volta per me.
Ho tutto il tempo per pensare a come e perché sono arrivata qua, nella mia seconda patria.

Toni aveva organizzato tutto, lavoro e casa. Avremmo abitato in un mini appartamento adiacente al suo in una dei tanti rioni italiani. Era vicino alla La Boca. Che meraviglia vedere quel quartiere con le case colorate fatte di latta e di legno. C’erano tanti genovesi là; ho imparato presto che non era importante da quale regione provenissimo, eravamo tutti italiani. Era come sbarcare in un’Italia in miniatura. Con il passare degli anni ho scoperto quanto siamo amati e rispettati. L'Argentina aveva bisogno di noi, di mano d’opera e cervelli.
Così, giungere in una terra lontana, senza gli affetti è stato meno traumatico di quel che temevo grazie ai miei compatrioti.

Nani è di ritorno, dice che è tutto pronto. Voleva chiamare un taxi, ma i miei nipoti, figli di mio fratello Toni, vogliono accompagnarci con la loro auto.
̶  Maria, hai preso tutte le tue cose? Vuoi che ti aiuti a controllare l’elenco di ciò che vuoi portare con te?
̶  Sessant’anni di vita in due valigie, Nani, e un bagaglio di ricordi molto più cospicuo.
̶  Porto giù le valigie. Aspetto i nostri nipoti e poi risalgo a prenderti.

La mia mente rincorre i ricordi, come a voler capire la circolarità della mia vita. I primi anni furono faticosi e intensi. Ernesto cominciò subito a lavorare; io cucivo e ricamavo per le famiglie nei dintorni. Volevo imparare lo spagnolo e così m’iscrissi a un corso serale. Parlare non era difficile, tante parole sono simili al nostro dialetto, ma la grammatica è difficile ed io avevo frequentato solo le elementari.
Il dolore del distacco era sempre presente. Avevo lasciato i miei genitori, tre fratelli e tre sorelle, con poca speranza di rivederli. Mi mancavano tutti, ricordavo con nostalgia struggente le cene frugali ma sempre gioiose. Per fortuna a Buenos Aires c’era mio fratello Toni e, con il passare dei mesi e degli anni, si formò una grande famiglia. La domenica ci si trovava in tanti in chiesa e si creavano nuove amicizie e collaborazioni.
Io smisi di andare in chiesa negli anni quaranta. Non ci credevo più alla preghiera e alla speranza. Dopo otto anni dal mio arrivo e una vita quasi felice, Toni cadde da un’impalcatura e mori. L’impresa dovette chiudere; mio marito Ernesto cominciò a bere, diventò la sua occupazione principale finché fu trovato morto per la strada. Ero sola e senza un lavoro fissa. Con i pochi soldi che avevo messo da parte e l’aiuto di Mimina, la vedova di Toni, m’iscrissi a una scuola per infermiere e fu una sfida perché prima dovetti conseguire il diploma delle medie. Ci riuscii. Assistevo i malati, mi chiamavano anche dall’ospedale e il lavoro mi piaceva, potevo aiutare gli altri e vivere con quello che guadagnavo.

Nani è qui. Tempo di staccarsi da tutto e tutti. In auto non riesco a parlare, il nodo in gola non me lo permette e non voglio piangere. Mi trovo dentro l’aereo che a me sembra un’astronave. Nani mi parla dell’Italia, di come si viva bene adesso; mi descrive la sua famiglia: cinque figli non sono pochi ma tutti sistemati.
Ascolto e poi mi assopisco. Quando mi sveglio, tengo gli occhi chiusi. Nani sta guardando il film che proiettano. Io sento la necessità ripercorrere il film della mia vita.

Ci sono stati tempi difficili in Argentina: colpi di stato, dittature e i desaparecidos.
Non ricordo quanti governi si sono susseguiti con disastrose conseguenze sociali ed economiche; per questo ringrazierò sempre Peron e la grande Evita. Le riforme sociali che hanno introdotto, quello che hanno fatto per i lavoratori è stato grande. Grazie a loro milioni di lavoratori, io compresa, hanno avuto la pensione.  I desaparecidos. Che tragedia e orrore! Se ne palava in segreto, con tanta paura. Poi un giorno anche il figlio della mia vicina Anna sparì. La polizia segreta indagava, interrogava tutti nel nostro quartiere alla caccia di altri dissidenti. Manuele, studente di legge, partecipava a tutte le dimostrazioni e un giorno sparì nel nulla con tanti altri giovani. Alla paura seguì la reazione. Le Madri di Plaza de Mayo, con un coraggio incredibile, iniziarono a protestare, a chiedere spiegazioni e, soprattutto, a reclamare il ritorno dei loro figli. Anna era una delle madri con il fazzoletto bianco in testa, voleva il suo Manuele. Non so quanti dissidenti siano spariti, dicono decine di migliaia, tra questi anche Manuele, sparito per sempre.
A volte penso che la paura e l’incertezza siano state la colonna sonora in vari periodi della mia vita. Ricordo quando appresi che l’Italia era entrata in guerra e che i miei fratelli Nani e Ice erano partiti. In quel periodo le lettere arrivavano a intervalli di mesi. Nani scriveva quando poteva e l’attesa di notizie mi logorava. La mia famiglia si stava sgretolando, avevo perso il papà, una sorella e un fratello e loro due erano in mezzo a una guerra sanguinosa. Ero felice che l’Argentina fosse neutrale e angosciata per l’Italia e l’Europa. Che periodo di atrocità e distruzione!
E nel dopoguerra: tutto da ricominciare, ricostruire. L’unica cosa positiva fu che i miei due fratelli tornarono a casa, anche se Ice fu prigioniero degli inglesi, in India, per due anni.

L’hostess si avvicina e chiede se desidero una bevanda. Non voglio nulla. Preferisco continuare il mio viaggio mentale. Nani mi guarda con affetto, mi chiede se sono contenta di questo ritorno, se avessi mai considerato questa possibilità prima.

Spiego che quando compii sessant’anni e ottenni la mia pensione, ci pensai seriamente. Se tornavo, volevo essere autosufficiente. Poi è successo qualcosa d’incredibile: mi sono risposata.
̶  De Avellino è il tuo secondo cognome. Nelle tue lettere non hai mai spiegato cosa e com’è avvenuto.
̶  Beh, anche se ero in pensione, continuavo la mia professione d’infermiera con i privati. E fu così che cominciai ad assistere la moglie del Capitano dell’Esercito José De Avellino. Per due anni mi recai da loro ogni giorno e qualche volta, se necessario, passavo la notte al capezzale della signora. Il capitano ed io parlavamo molto; lui mi era grato per ciò che facevo. Dopo la morte della signora, non vidi il capitano per parecchi mesi. Un giorno venne a trovarmi e m’invitò a cena. Fu l’inizio di una relazione tranquilla. No, non era amore ma rispetto e affezione. Lui aveva sessantasette anni, in pensione, io sessantadue. Ci siamo sposati civilmente e abbiamo vissuto dieci mesi un’esistenza serena e affettuosa. Solo dieci mesi e poi un infarto me lo portò via.
̶  Questo lo ricordo. Non si può dire che tu abbia avuto una vita facile, ma hai sempre reagito con una forza d’animo incredibile, Maria.

Sorrido e ripenso alla mia vita come un susseguirsi di cadute e il risollevarsi sempre più arduo.
Mi trasferii in un mini appartamento vicino a mia cognata. Per le pratiche di successione, un avvocato italiano mi aiutò, ma la scoperta spiacevole fu che, secondo la legge argentina, avevi diritto alla pensione del marito solo dopo un anno dal matrimonio.
Far parte della comunità italiana mi ha aiutata moltissimo, non solo per le pratiche burocratiche ma per l’affetto e la vicinanza dimostratemi in tutti questi lunghi anni. Da sola non sarei riuscita a superare l’angoscia per il futuro. Ho un forte legame con mia cognata, e con i suoi figli che ora sono cadetti e, intorno a loro, tante persone, una grande famiglia.
Certo ancora accarezzavo l’idea di tornare in Italia, il desiderio di rivedere i miei fratelli e sorelle. R
imase un desiderio fino alla caduta dalla scala, appendendo le tende. Ho continuamente bisogno di aiuto e l’ho avuto, ma non è giusto; sono vecchia e malandata e mi detesto quando devo chiedere senza poter dare nulla in cambio.
In Italia vivrò con mia sorella, avrò intorno i miei due fratelli e tanti nipoti; la mia pensione sarà sufficiente per le poche necessità che ho. È la scelta giusta, ma il mio cuore è spaccato dalla nostalgia.
Nani mi ha chiesto se mi sento più italiana o argentina.
Sono italoargentina. Amo questi due paesi. A Buenos Aires ho trovato la mia piccola Italia e gli italiani là sono più apprezzati che in patria. Se è giunta la mia ora, tuttavia, voglio giacere accanto ai miei genitori; sento le lacrime scorrermi lungo le guance.
̶  Stai Bene, Maria? – chiede Nani, preoccupato.
̶  Bien mas o meno, ̶  rispondo.  Ci scambiamo un sorriso

 

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