La Fuga
Scendeva le scale, aveva fretta, il taxi la aspettava. Stava chiudendo, finalmente, quella porta. Aveva solo un piccolo trolley, uno che poteva portare con sé in volo. Era un poco liso ma lo aveva scelto di proposito, per non attirare la sua attenzione.
Si guardò allo specchio: jeans scuri, giubbotto nero, capelli raccolti e coperti dal berretto che scendeva a metà fronte, occhiali da vista e sole: era invisibile o almeno lo sperava. Lui voleva che indossasse sempre abiti eleganti, scelti da lui, e lenti a contatto.
Dentro il taxi, aprì la cerniera esterna e sorrise vedendo la busta sigillata con biglietto per Parigi. Il fratello glielo aveva fatto pervenire tramite un amico, niente posta, niente consegne: troppo pericoloso. Lui controllava le sue ricerche in internet, il cellulare, tutto. Per parlare con il fratello usava il telefono pubblico e avevano scambiato innocui Whatsapp per non insospettire lui. Lui era partito alle sette del mattino. Prima di uscire, si era chinato su di lei e le aveva posato un bacio sulla guancia mormorando – aspettami -. Sentì un brivido lungo la schiena che portava ancora i lividi del suo volo contro la porta quando lui si era infuriato perché era rientrata tardi e la cena non era pronta. A Parigi sarebbe stata al sicuro da suo fratello. Era pronto ad accoglierla, a difenderla. Avrebbe desiderato venire a prenderla personalmente, ma ci sarebbe stato uno scontro, la violenza di suo marito non aveva limiti quando si toccava qualcosa di suo e lei era – sua – glielo ripeteva ogni giorno.
Entrò nel terminal sentendosi leggera e ottimista come non lo era da anni. Avrebbe cominciato una nuova vita, respirare senza paura, senza la paralisi mentale che anche solo la sua presenza causava. Com’era possibile cambiare in questo modo? Può una persona simpatica e affettuosa trasformarsi in mister Hyde?
Arrivata a Venezia, si era resa conto di essere in grande anticipo; entrò al bar per bere qualcosa, sorridente, leggera nei pensieri. Stava per uscire quando si sentì toccare una spalla.
“ Ha dimenticato gli occhiali alla cassa, signora.” Una ragazza in jeans e felpa le sorrise.
“Grazie. Sono una talpa senza di quelli. Posso offrirle qualcosa? È stata così gentile! È in partenza anche lei? Io vado da mio fratello a Parigi.”
“No. Io sto aspettando la mia amica che arriva da Berlino.”
Chiacchierarono per una decina di minuti; Anna non si era mai sentita così, così, quasi felice. La ragazza si chiamava Lisa, proprio come la sua amica di sempre, compagna di scuola e delle spensierate estati in giro per il mondo. Lisa che non vedeva da anni perché lui aveva deciso che era troppo libera, per niente seria e aveva una pessima influenza su di lei. Aveva rinunciato e pianto ma non aveva la forza per lottare. Lui aveva fatto terra bruciata intorno a lei; le permetteva di comunicare con il fratello solo perché viveva lontano. Non parlò alla ragazza della sua vita in quei lunghi cinque anni, non poteva; solo nominarlo avrebbe frantumato quella fragile bolla di speranza che si stava creando. Parlò di ciò che l’aspettava a Parigi, del fratello, cognata e nipoti che non vedeva da anni, dei musei, le mostre. Lisa in jeans e felpa le ricordava molto l’amica rinnegata ed anche lei, di rimando, si lasciò andare a confidenze sulla sua vita sentimentale disastrata, l’incertezza sul futuro legato al suo rapporto non ancora completamente definito con l’amica tedesca che stava aspettando. Sentì ammirazione nei suoi confronti: lei non aveva paura di affrontare le proprie ambiguità e cercava, in qualche modo di risolverle. Infine, si separarono con un abbraccio, come amiche.
Più tardi, allo sportello del check-in estrasse la busta, sollevò il lembo incollato ed tirò fuori il biglietto. L’impiegata, vedendola impallidire, le chiese se si sentisse male ma lei indietreggiò senza parlare; stringeva il biglietto contro il petto, la mente vuota. Uscì di corsa dal terminal, si appoggiò a una colonna e cominciò a dondolare avanti e indietro come comandata da una molla e poi l’odore acre di sudore le causò nausea. La gente intorno si muoveva in fretta o fingeva di non vedere ma qualcuno la notò.
Lisa e l’amica appena arrivata le si avvicinarono; Lisa la abbracciò e le chiese cosa era successo e come poteva aiutarla. Lei alzò il volto e aprì il pugno dove teneva il biglietto accartocciato: era tutto coperto d’inchiostro nero dove, in bianco, spiccavano queste parole: – Dove credi di andare, Anna? Il tuo posto è a casa! – Le due ragazze guardarono il biglietto allibite, pensando a cosa fare. Non potevano certo lasciarla sola in quello stato.
“ Puoi chiamare qualcuno che ti aiuti, Anna? Chiama suo fratello che ti starà aspettando, vedrai che lui troverà una soluzione.” Anna scuoteva il capo, piangeva e continuava a dondolare.
“Dammi il cellulare, chiamerò io tuo fratello. Per favore, lasciami fare qualcosa.”
Anna cominciò a frugare nella borsa, poi nello zainetto; impotente, si coprì il volto, poi ricominciò a cercare frenetica, lo trovò nella tasca del giubbotto. Con mani tremanti compose il numero e porse il telefono alla ragazza. Lisa si allontanò lasciando l’amica con Anna. Tornò dopo pochi minuti.
“ Tuo fratello arriverà domani mattina: ha il nostro indirizzo. Per questa notte starai da noi, sarai al sicuro. A casa non devi più tornarci.”
Anna abbracciò le amiche; tra i singulti riuscì solo a ripetere:" Grazie, grazie, non sono più sola.".
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