Sono Italoargentina
1925 Genova
Ottobre, un vento gelido che strappa le ultime
foglie dagli alberi e alza il mare in onde che s’infrangono conto l’imponente
mole della nave nel porto di Genova; ci porterà in Argentina, a Buenos Aires, dove
mio fratello Toni vive con la famiglia ed è diventato imprenditore edile. Mio
marito Ernesto lavorerà con lui, io continuerò il mio lavoro di sarta e
ricamatrice. Tempi duri in Italia, tanta disoccupazione e nessun futuro per
noi. Mio fratello Toni ci ha convinti. Ci sono centinaia di persone come noi,
con una valigia di cartone, la disperazione in tasca e la speranza legata a un
filo. Vengono da tutte le parti del paese, tanti veneti come Ernesto e me,
facilmente riconoscibili dal dialetto e le mani indurite dai calli.
Partire è come staccare un pezzo di cuore e i sorrisi forzati mal riescono a
mascherare il dolore del distacco.
1985 Buenos Aires
Mi guardo intorno. Guardare è un eufemismo considerato
che sono quasi completamente cieca; vedo sagome e colori sbiaditi, il che mi ha
permesso di muovermi per la casa senza rischiare cadute e altri problemi. Ho
dovuto decidere di lasciare questa terra che amo perché a ottantaquattro anni e
questa infermità devo contare sugli altri. Sono tutti così premurosi: mi fanno
la spesa, mi accompagnano quando devo andare in qualche ufficio per fare tutte
le pratiche di espatrio e il trasferimento della pensione. Tornerò in Italia
dopo sessant’anni, come emigrare ancora una volta, vivrò nel mio paese che ora
è una cittadina prospera vicina a Treviso, con mia sorella Alba della quale ho
un vago ricordo. Mio fratello Nani è arrivato due settimane fa e adesso è tutto
pronto per la nostra partenza. Ho poco bagaglio e un grosso album di
fotografie. La comunità italiana qui ha accolto mio fratello come un membro
della grande famiglia, per questo sento un nodo in gola, sto per lasciare
persone che mi hanno accolta quale zia, amica, sorella Mi mancheranno tutti.
Viaggeremo in aereo, è la prima volta per me.
Ho tutto il tempo per pensare a come e perché sono arrivata qua, nella mia
seconda patria.
Toni aveva organizzato tutto, lavoro e casa.
Avremmo abitato in un mini appartamento adiacente al suo in una dei tanti rioni
italiani. Era vicino alla La Boca. Che meraviglia vedere quel quartiere con le
case colorate fatte di latta e di legno. C’erano tanti genovesi là; ho imparato
presto che non era importante da quale regione provenissimo, eravamo tutti
italiani. Era come sbarcare in un’Italia in miniatura. Con il passare degli
anni ho scoperto quanto siamo amati e rispettati. L'Argentina aveva bisogno di
noi, di mano d’opera e cervelli.
Così, giungere in una terra lontana, senza gli affetti è stato meno traumatico
di quel che temevo grazie ai miei compatrioti.
Nani è di ritorno, dice che è tutto pronto. Voleva
chiamare un taxi, ma i miei nipoti, figli di mio fratello Toni, vogliono
accompagnarci con la loro auto.
̶ Maria, hai preso tutte le tue cose?
Vuoi che ti aiuti a controllare l’elenco di ciò che vuoi portare con te?
̶ Sessant’anni di vita in due valigie,
Nani, e un bagaglio di ricordi molto più cospicuo.
̶ Porto giù le valigie. Aspetto i nostri
nipoti e poi risalgo a prenderti.
La mia mente rincorre i ricordi, come a voler capire la circolarità della mia
vita. I primi anni furono faticosi e intensi. Ernesto cominciò subito a
lavorare; io cucivo e ricamavo per le famiglie nei dintorni. Volevo imparare lo
spagnolo e così m’iscrissi a un corso serale. Parlare non era difficile, tante
parole sono simili al nostro dialetto, ma la grammatica è difficile ed io avevo
frequentato solo le elementari.
Il dolore del distacco era sempre presente. Avevo lasciato i miei genitori, tre
fratelli e tre sorelle, con poca speranza di rivederli. Mi mancavano tutti, ricordavo
con nostalgia struggente le cene frugali ma sempre gioiose. Per fortuna a
Buenos Aires c’era mio fratello Toni e, con il passare dei mesi e degli anni,
si formò una grande famiglia. La domenica ci si trovava in tanti in chiesa e si
creavano nuove amicizie e collaborazioni.
Io smisi di andare in chiesa negli anni quaranta. Non ci credevo più alla
preghiera e alla speranza. Dopo otto anni dal mio arrivo e una vita quasi
felice, Toni cadde da un’impalcatura e mori. L’impresa dovette chiudere; mio marito
Ernesto cominciò a bere, diventò la sua occupazione principale finché fu
trovato morto per la strada. Ero sola e senza un lavoro fissa. Con i pochi
soldi che avevo messo da parte e l’aiuto di Mimina, la vedova di Toni, m’iscrissi
a una scuola per infermiere e fu una sfida perché prima dovetti conseguire il
diploma delle medie. Ci riuscii. Assistevo i malati, mi chiamavano anche
dall’ospedale e il lavoro mi piaceva, potevo aiutare gli altri e vivere con
quello che guadagnavo.
Nani è qui. Tempo di staccarsi da tutto e tutti. In auto non riesco a parlare,
il nodo in gola non me lo permette e non voglio piangere. Mi trovo dentro
l’aereo che a me sembra un’astronave. Nani mi parla dell’Italia, di come si
viva bene adesso; mi descrive la sua famiglia: cinque figli non sono pochi ma
tutti sistemati.
Ascolto e poi mi assopisco. Quando mi sveglio, tengo gli occhi chiusi. Nani sta
guardando il film che proiettano. Io sento la necessità ripercorrere il film
della mia vita.
Ci sono stati tempi difficili in Argentina: colpi di stato, dittature e i
desaparecidos.
Non ricordo quanti governi si sono susseguiti con disastrose conseguenze sociali
ed economiche; per questo ringrazierò sempre Peron e la grande Evita. Le
riforme sociali che hanno introdotto, quello che hanno fatto per i lavoratori è
stato grande. Grazie a loro milioni di lavoratori, io compresa, hanno avuto la
pensione. I desaparecidos. Che tragedia
e orrore! Se ne palava in segreto, con tanta paura. Poi un giorno anche il
figlio della mia vicina Anna sparì. La polizia segreta indagava, interrogava
tutti nel nostro quartiere alla caccia di altri dissidenti. Manuele, studente
di legge, partecipava a tutte le dimostrazioni e un giorno sparì nel nulla con
tanti altri giovani. Alla paura seguì la reazione. Le Madri di Plaza de Mayo,
con un coraggio incredibile, iniziarono a protestare, a chiedere spiegazioni e,
soprattutto, a reclamare il ritorno dei loro figli. Anna era una delle madri
con il fazzoletto bianco in testa, voleva il suo Manuele. Non so quanti
dissidenti siano spariti, dicono decine di migliaia, tra questi anche Manuele,
sparito per sempre.
A volte penso che la paura e l’incertezza siano state la colonna sonora in vari
periodi della mia vita. Ricordo quando appresi che l’Italia era entrata in
guerra e che i miei fratelli Nani e Ice erano partiti. In quel periodo le
lettere arrivavano a intervalli di mesi. Nani scriveva quando poteva e l’attesa
di notizie mi logorava. La mia famiglia si stava sgretolando, avevo perso il
papà, una sorella e un fratello e loro due erano in mezzo a una guerra
sanguinosa. Ero felice che l’Argentina fosse neutrale e angosciata per l’Italia
e l’Europa. Che periodo di atrocità e distruzione!
E nel dopoguerra: tutto da ricominciare, ricostruire. L’unica cosa positiva fu
che i miei due fratelli tornarono a casa, anche se Ice fu prigioniero degli
inglesi, in India, per due anni.
L’hostess si avvicina e chiede se desidero una
bevanda. Non voglio nulla. Preferisco continuare il mio viaggio mentale. Nani
mi guarda con affetto, mi chiede se sono contenta di questo ritorno, se avessi
mai considerato questa possibilità prima.
Spiego che quando compii sessant’anni e ottenni la mia pensione, ci pensai
seriamente. Se tornavo, volevo essere autosufficiente. Poi è successo qualcosa d’incredibile:
mi sono risposata.
̶ De Avellino è il tuo secondo cognome.
Nelle tue lettere non hai mai spiegato cosa e com’è avvenuto.
̶ Beh, anche se ero in pensione, continuavo
la mia professione d’infermiera con i privati. E fu così che cominciai ad
assistere la moglie del Capitano dell’Esercito José De Avellino. Per due anni
mi recai da loro ogni giorno e qualche volta, se necessario, passavo la notte
al capezzale della signora. Il capitano ed io parlavamo molto; lui mi era grato
per ciò che facevo. Dopo la morte della signora, non vidi il capitano per
parecchi mesi. Un giorno venne a trovarmi e m’invitò a cena. Fu l’inizio di una
relazione tranquilla. No, non era amore ma rispetto e affezione. Lui aveva sessantasette
anni, in pensione, io sessantadue. Ci siamo sposati civilmente e abbiamo
vissuto dieci mesi un’esistenza serena e affettuosa. Solo dieci mesi e poi un
infarto me lo portò via.
̶ Questo lo ricordo. Non si può dire che
tu abbia avuto una vita facile, ma hai sempre reagito con una forza d’animo
incredibile, Maria.
Sorrido e ripenso alla mia vita come un susseguirsi
di cadute e il risollevarsi sempre più arduo.
Mi trasferii in un mini appartamento vicino a mia cognata. Per le pratiche di
successione, un avvocato italiano mi aiutò, ma la scoperta spiacevole fu che,
secondo la legge argentina, avevi diritto alla pensione del marito solo dopo un
anno dal matrimonio.
Far parte della comunità italiana mi ha aiutata moltissimo, non solo per le pratiche
burocratiche ma per l’affetto e la vicinanza dimostratemi in tutti questi
lunghi anni. Da sola non sarei riuscita a superare l’angoscia per il futuro. Ho
un forte legame con mia cognata, e con i suoi figli che ora sono cadetti e,
intorno a loro, tante persone, una grande famiglia.
Certo ancora accarezzavo l’idea di tornare in Italia, il desiderio
di rivedere i miei fratelli e sorelle. Rimase un desiderio fino alla caduta
dalla scala, appendendo le tende. Ho continuamente bisogno di aiuto e l’ho
avuto, ma non è giusto; sono vecchia e malandata e mi detesto quando devo
chiedere senza poter dare nulla in cambio.
In Italia vivrò con mia sorella, avrò intorno i miei due fratelli e tanti
nipoti; la mia pensione sarà sufficiente per le poche necessità che ho. È la
scelta giusta, ma il mio cuore è spaccato dalla nostalgia.
Nani mi ha chiesto se mi sento più italiana o argentina.
Sono italoargentina. Amo questi due paesi. A Buenos Aires ho trovato la mia piccola
Italia e gli italiani là sono più apprezzati che in patria. Se è giunta la mia
ora, tuttavia, voglio giacere accanto ai miei genitori; sento le lacrime scorrermi
lungo le guance.
̶ Stai Bene, Maria? – chiede Nani,
preoccupato.
̶ Bien mas o meno, ̶ rispondo.
Ci scambiamo un sorriso